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Il Nanerottolo Romano che non può reggere il mondo con la spada
(translated into English)


Il Nanerottolo Romano che non può reggere il mondo con la spada


- Melchiorre Gerbino
- direttore della rivista Mondo Beat

Nella seconda metà del settembre 2003 pubblicavo nel sito Internet della casa editrice Asefi-Terziaria di Milano il saggio sul Vaticano Il Bambino Gesù mi vuole terrone in versione italiana e inglese. L’Asefi-Terziaria aveva già pubblicato tipograficamente il mio libro "Area di Transito" e Gianfranco Monti, il titolare, avrebbe ora inviato 2500 email del saggio "Il Bambino Gesù mi vuole terrone" ad altrettanti suoi abbonati. Sarebbero seguite polemiche in rete su temi scottanti, come la politica del papa Pio XII verso l’Italia e la morte del papa Giovanni Paolo I, presumibilmente avvelenato dal Generale dei gesuiti Pedro Arrupe, e i contatti giornalieri del sito della casa editrice sarebbero triplicati (da 40 a 120), quando l'editore Gianfranco Monti sarebbe stato trovato morto su una rampa di scale di un condominio di Via Volta in Milano, dove possedeva un appartamento. Questa morte inaspettata sarebbe occorsa l’8 dicembre 2003. Appresa la notizia, io avrei lasciato Calatafimi, il mio paese in Sicilia, dove mi trovavo, e l’11 dicembre mattina mi sarei trovato con una quarantina di persone in un obitorio di Milano, per dare l’addio a Gianfranco Monti.
Sorprendentemente Gianfranco Monti, dopo tre giorni dal trapasso, non riposava nel rigor mortis, come ce lo si sarebbe aspettato di trovare, ma mostrava i tratti del viso stravolti. Nell’attonito ammutolimento dei presenti, Donatella, la vedova, rivolta a me avrebbe detto ad alta voce "Hai visto come è diventato viola?". Pochi giorni dopo, senza che fosse stata fatta l’autopsia e fuori dalla tradizione familiare, la vedova avrebbe fatto cremare il corpo del marito. Sarebbero perciò sorti sospetti che la vedova lo abbia fatto perché impaurita da qualcuno che glielo avrebbe consigliato.
Il fatto certo sarebbe stato comunque che essendo la Asefi-Terziaria una casa editrice a conduzione familiare (Gianfranco e Donatella e i figli Giulia e Eugenio), la morte di Gianfranco ne avrebbe menomato l’attività, tanto che de "Il Bambino Gesù mi vuole terrone" nessuno si sarebbe più potuto prendere cura.

Dopo una decina di giorni di permanenza a Milano, mi sarei recato in Kenya, a Mombasa, dove sarei rimasto tra il 21 febbraio e il 20 marzo 2004. Allora mi sarei convertito all'Islam.

Tornato a Milano, ci sarei rimasto fino a fine aprile. Poi sarei tornato a Calatafimi, dove possedevo una campagna con una casa.
Il 14 maggio 2004 ero dunque a Calatafimi, e la sera mi sarei recato nel museo comunale per salutarvi Anita Garibaldi, pronipote di Giuseppe Garibaldi, la quale era stata invitata dal sindaco Nicolò Cristaldi a presenziare alle celebrazioni della ricorrenza della Battaglia di Calatafimi del 15 maggio 1860. Essendole io andato incontro ed avendola abbracciata, grande sarebbe stato il mio sconcerto nell’averla sentita scostante verso di me e fredda di ghiaccio. Tra lei e me c’era dimestichezza, avendo io qualche anno prima a Roma conosciuto lei e il professore Salvatore Spinello, suo convivente, durante una ricorrenza garibaldina, e avendoli poi frequentati assiduamente. Nella circostanza di quel primo incontro, il professore Spinello m’aveva dato il suo biglietto da visita e m’aveva detto-"Sono un gran maestro di massoneria. Mi telefoni". Io, che ero curioso di conoscere l’ambiente massonico, lo avevo chiamato pochi giorni dopo e subito sarei stato invitato a casa di Anita Garibaldi, dove sarei stato introdotto a persone con le quali mi sarei intrattenuto a parlare. Fin da quella prima volta, e poi sempre, io non avrei fatto mistero di quello che penso del Vaticano, e quella sera stessa, argomentando sui rapporti che il Vaticano intrattiene con le nazioni dove numerosa è la comunità italiana, io ebbi a dire- "Il Vaticano certamente vi avrà mandato un nunzio apostolico con i piani per introdurvi la Mafia". Al che, il professore Spinello aveva troncato il mio dire con un brusco "Giovanotto!", che m’aveva lasciato perplesso, perché dalle mie letture sui massoni m’era parso evidente come essi fossero anti papisti (vedono nel papa l’Anticristo, gli strappano l’anello dal dito e lo pestano tre volte sotto i piedi!). Il giorno dopo, nella Serenissima Gran Loggia Mistica degli A.L.A.M., dove andai a trovarlo, il professore Spinello mi avrebbe spiegato come nel 1912 un gruppo di massoni s’era staccato dalla Confessione di Palazzo Giustiniani (quelli che pestano l’anello) per dare vita alla nostra Confessione di Piazza del Gesù e andare così incontro ai cattolici italiani, che fin lì erano rimasti negletti, e portare loro la Luce.
Cominciai a frequentare la Serenissima Gran Loggia Mistica, incuriosito dalla figura del Professore. In verità non avevo mai conosciuto qualcuno più paradossale e indecifrabile di Salvatore Spinello. Egli gestiva una loggia dove non veniva nessuno, tranne il proprietario dei locali, che ogni giorno reclamava i soldi dell’affitto di sette mensilità arretrate, e se ne stava lì una buona ora a profferire minacce di sfratto, mentre il Professore adduceva scuse inverosimili. Quando finalmente il proprietario se ne andava, il Professore, preso da un raptus di liberazione, andava a scartabellare elenchi di "fratelli", non si sapeva più se "in sonno" o morti, e si metteva a fare proiezioni di quanti ne avrebbe potuto rintracciare e calcoli di quante mensilità arretrate avrebbe potuto da loro riscuotere, per saldare i conti dell’affitto, e preparava memorandum per una segretaria inesistente, ma di cui si aspettava l’avvento. Io non mi spiegavo perché non mollasse tutto e si godesse in pace la vecchiaia. Il Professore non era un mitomane. Durante la seconda guerra mondiale era stato una sorta di Rambo, e s’era guadagnata una medaglia d’argento, e però, per la sua natura paradossale, non aveva mai imparato a nuotare e aveva terrore delle masse d’acqua... E poi lì, nell’abbandono della Serenissima Gran Loggia Mistica, d’un tratto poteva apparire il capo di una branca dei servizi segreti italiani, che a suo tempo aveva presentato il Professore a un capo dei servizi segreti americani, che aveva fatto un "provino" al Professore, che però non era andato bene, perché l'incarico che dovevano assegnare sarebbe andato a Antonio Di Pietro... Oppure arrivava un vice questore, che veniva a raccontare al Professore di tutte le ammazzatine tra carabinieri e carabinieri, e tra poliziotti e poliziotti, e tra carabinieri e poliziotti (io ero tenuto lontano da questo genere di incontri, il Professore me ne avrebbe poi accennato vagamente); oppure, a un tratto, come preso da una ispirazione, il Professore alzava il telefono e componeva un numero -"Signorina, sono il professore Spinello, mi passi, per cortesia, il cardinale Oddi"- che era un cardinale molto intimo del papa Giovanni Paolo II, e la signorina glielo passava. Stupefacente era poi la sua preparazione sugli articoli della Costituzione italiana e la sua capacità di interpretarli e di suggerirne modifiche, abrogazioni, miglioramenti, e stupefacente era la sua negazione per la politica, sia italiana che estera, di cui fraintendeva tutto. Dopo alcuni mesi mi stancai di frequentarlo e, stanco com’ero pure di vivere a Roma, mi sarei trasferito a Milano. Ma qualche anno dopo, essendo tornato a Roma, lo cercai ancora, e non sarebbe stata impresa facile rintracciarlo, perché nel frattempo la Serenissima Gran Loggia Mistica aveva dovuto sloggiare alcune volte da un locale a un altro, sempre per inadempienza di pagamenti d’affitto. Avendolo finalmente rintracciato, trovai il Professore ancora più solo e screditato di prima, e ancora più intestardito a volere andare avanti. Capii allora che egli era afflitto da una perniciosa forma di narcisismo senile, pur tuttavia continuai a credere che fosse custode di qualche verità esoterica, di qualche scaglia di pietra filosofale. E anche quella seconda volta gli fui assiduo, finché non lo misero agli arresti domiciliari, per una sua presunta trama per assassinare Umberto Bossi, leader della Lega Nord: un affare che sapeva di complotto contro il Professore, ordito da quelli di Palazzo Giustiniani (quelli che pestano l'anello).

Di Anita Garibaldi invece non mi era stato difficile capire la personalità. Era di intelligenza comune e scarsa cultura e credeva di avere carisma perché discendente di Giuseppe Garibaldi. Per ogni evento pubblico cui partecipava, veniva imbeccata da Salvatore Spinello su cosa dire e come, ma puntualmente avrebbe fatto disperare il Professore per come si sarebbe comportata. Quella sera del 14 maggio io sarei rimasto interdetto a causa della di lei freddezza nei miei riguardi, né questa me lo sarei potuta spiegare perché Anita Garibaldi era stata invitata a Calatafimi dal sindaco Nicolò Cristaldi, che con me era in cattivi rapporti. Io difatti avevo attaccato Nicolò Cristaldi in un comizio elettorale perché costui, per farsi rieleggere sindaco di Calatafimi, aveva fatto un plateale voltafaccia politico, con cui era passato da sfegatate posizioni laiche a un grottesco asservimento clericale, tanto che stava programmando la messa in posa di tre statue del Vaticano nell’area archeologica di Segesta, dove, se tre statue si avessero a istallare, dovrebbero essere quelle di Enea, Alcibiade, Cicerone. Ma tutte queste considerazioni non mi avrebbero comunque fatto intendere perché Anita Garibaldi fosse stata così scostante con me.

Il 15 maggio ero dunque sulle alture del Colle di Pianto Romano, dove si celebrava la ricorrenza della Battaglia di Calatafimi. Lì la cerimonia era surreale. Anita Garibaldi teneva un discorso con cui avrebbe evocato a più riprese le origini cristiane dell'Europa, mentre Nicolò Cristaldi, impettito nella fascia tricolore di sindaco, si sarebbe prodigato in baciamani al vescovo cattolico di Mazara del Vallo. Pareva come se Giuseppe Garibaldi avesse vinto la Battaglia di Calatafimi per intercessione della Madonna.

Dai primi di luglio mi dedicai a restauri nella mia casa di campagna, quando il pomeriggio del 13 settembre qualcuno mi avrebbe avvertito che volevano avvelenarmi.
Ciò sarebbe successo a Caltafimi, mentre sostavo in Piazzetta Beato Arcangelo Placenza davanti al bar di Nino Mazara, dove avevo appena finito di bere un caffè. Mi veniva allora incontro un tale che con gran gesticolare e ad alta voce mi diceva "Oh! Signor Gerbino! Che piacere! Posso chiederle un autografo?".
Poiché ero stato molte volte ospite del Maurizio Costanzo Show, il più famoso talk show italiano, dove parlando dei miei viaggi intorno al mondo avevo fatto segnare alti indici di ascolto, ero conosciuto e mi si chiedevano autografi.
Questo mio ammiratore non era di Calatafimi, che è un piccolo paese dove tutti ci conosciamo a vista. Parlava senza inflessioni dialettali, era sulla quarantina, di alta statura e di corporatura massiccia, carnagione scura e capelli corvini, lenti da vista affumicate, indossava un completo estivo marrone e calzava mocassini Timberland.
Reggeva un portafogli con sopra un biglietto da visita girato dal lato in bianco e mi porgeva una penna biro perché io firmassi. "Stia attento che la vogliono avvelenare!" - mi avrebbe bisbigliato, e datami una gentile pacca su una spalla si sarebbe allontanato con la stessa area teatrale con cui era arrivato.
Io sarei rientrato nel bar a bere un altro caffè, poi mi sarei avviato alla mia vettura, per tornare in campagna e andarmi a stendere in un’amaca a riflettere.

E dunque l'editore Gianfranco Monti era stato avvelenato e si predisponevano ad avvvelenare pure me. Né questa sarebbe stata la prima volta che si sarebbe attentato alla mia vita.
Il primo attentato alla mia vita era avvenuto nell'aprile del 1968, nove mesi dopo lo scioglimento del Movimento Mondo Beat, quando Gianni De Martino, una spia che si era infiltrata nel Movimento, si sarebbe unito a me e alla mia compagna svedese Gunilla Unger in un viaggio verso il Marocco. Una volta in Marocco, questo Gianni De Martino si sarebbe coordinato con tale De Mattia, un agente dei servizi segreti italiani che lavorava sotto copertura diplomatica all'Ambasciata d'Italia a Casablanca. Un piano sarebbe stato elaborato perché io fossi ucciso con una overdose di morfina in una casa frequentata da hippies a Marrakech, e perché Gunilla Unger fosse ridotta alla stato di tossicodipendenza, di modo che dalla Santa Sede potessero gridare ai 4 venti Avete visto come sono finiti quel drogato del direttore di Mondo Beat e sua moglie?!
Questo Gianni De Martino ci avrebbe perciò condotto in una casa della Mellah di Marrakech, dove tra gli hippies che la frequentavano si mimetizzavano agenti di servizi segreti. In quella casa Gunilla Unger e io saremmo rimasti in stato di prigionia durante tre giorni, perché saremmo stati impediti di uscirne, ma per quante pressioni avrebbero fatto, non sarebbero riusciti a costringermi a una iniezione di morfina. Dopo tre giorni ci avrebbero lasciati uscire da quella casa, perché molti che la frequentavano si sarebbero insospettiti di come vi stesse accadendo qualcosa di stranamente insolito. Allora Gunilla Unger e io avremmo fatto una corsa in taxi da Marrakech a Casablanca, dove in un commissariato di polizia avremmo denunciato quanto era accaduto, e poi ci saremmo recati all'Ambasciata d'Italia, dove io avrei firmato un registro perché la mia visita fosse messa a protocollo, e avrei allora incontrato l'agente dei servizi segreti De Mattia, cui avrei detto che ero consapevole del piano con cui mi si voleva uccidere. All'uscita dall'ambasciata, Gunilla Unger e io saremmo stati arrestati dalla polizia marocchina e rinchiusi in una prigione di Casablanca durante tre giorni, durante i quali col cibo ci avrebbero somministrato psicofarmaci. Non fummo uccisi perché avevamo sollevato troppo rumore perché lo potessero fare alla chetichella. E però, dopo quella vicenda in Marocco, mi ci sarebbero voluti un paio di anni per ritrovare equilibri e orientamenti.
Gianni De Martino sarebbe stato premiato dal Vaticano, che lo avrebbe promosso agente di collegamento tra Santa Sede e Mossad (1). Lo stesso Gianni De Martino ne avrebbe dato testimonianza nel suo sito ufficiale (2). Chi volesse saperne di più su Gianni De Martino, trova qui tutta la sua storia (3).

La seconda volta che avrebbero tentato di uccidermi sarebbe stato a Calatafimi, nel settembre del 1988. Da dieci mesi vi stavo conducendo una campagna per i diritti civili, tenendo pubblici comizi e affiggendo manifesti, e avevo fatto scappare un prete impostore che stava truffando soldi a tutto il paese, tale Michelangelo Bruccoleri, e avevo fatto dimettere, l’uno dopo l’altro, due sindaci di Calatafimi, democristiani. Figurarsi dunque se in un protettorato vaticano, qual'è dalla fine della seconda guerra mondiale la Sicilia, non si ammazzi uno che fa scappare un prete e fa dimettere due sindaci della Democrazia Cristiana, partito politico creato e gestito dal Vaticano e dalla sua creazione sempre al governo! E così avrebbero deciso di eliminarmi durante una tornata di omicidi che sarebbero occorsi, con frequenza settimanale, nel settembre del 1988. Il mio era stato programmato per il 20 settembre, tra quello di Alberto Giacomelli (che sarebbe avvenuto il 14) e quello di Mauro Rostagno (che sarebbe avvenuto il 26).
Non starò qui a descrivere tutti i dettagli di questa storia, ma li si possono leggere in una denuncia da me presentata al Tribunale di Milano e dal magistrato Ferdinando Pomarici poi inviata per competenza al Tribunale di Trapani, dove giace archiviata (ovviamente). Voglio però spiegare perché fu programmata questa tornata di omicidi.
Si era nel 1988, due anni dopo la catastrofe atomica di Chernobyl, che di fatto aveva segnato la sconfitta dell'Unione Sovietica nella Guerra Fredda. Il Partito Comunista Italiano, ch'era stato un partito satellite di quello sovietico, era allo sbando, e si trattava del partito politico più votato in Italia. I gesuiti avevano perciò deciso di creare un partito politico che catturasse i voti dei comunisti e di affidarne la conduzione a Leoluca Orlando, un loro ex allievo. Questo partito, che si sarebbe chiamato "La Rete", sarebbe dunque sorto in Sicilia, per poi espandersi in tutta Italia.
Ma, per altro verso, anche Bettino Craxi, leader del Partito Socialista Italiano, si sarebbe adoperato ad attrarre i voti dei comunisti allo sbando.
E dunque gli omicidi di Mauro Rostagno e di Melchiorre Gerbino sarebbero stati programmati dai gesuiti perché Rostagno e Gerbino facevano parte dell'area socialista di Craxi e avrebbero potuto in una circoscrizione della provincia di Trapani catturare voti dei comunisti in tal numero da fare scattare il quoziente per l'elezione di un deputato in più di area socialista, e di conseguenza sottrarne uno all'area clericale. E siccome, per farli ammazzare, i gesuiti avrebbero dovuto ricorrere ai servizi segreti, pensarono di fare ammazzare pure il magistrato in pensione Alberto Giacomelli, ch'era stato presidente di una sezione del tribunale di Trapani e avendo conosciuto le magagne giudiziarie dei gesuiti s'era rifiutato di assecondarle (e per lo stesso motivo antecedentemente era stato fatto assassinare dai gesuiti il magistrato Giangiacomo Ciaccio Montalto).
E siccome negli omicidi che programmano i gesuiti sono raffinatissimi, quello di Melchiorre Gerbino, leader della Contestazione, lo avrebbero programmato per un 20 settembre, data di ricorrenza della Breccia di Porta Pia. Vendicativamente, mi si concedeva l'onore della ricorrenza di una data storica.
L'attuazione dell'eliminazione fisica di Melchiorre Gerbino sarebbe stata affidata a una squadra di fuoco coordinata da un mio concittadino, Rosario De Gaetano, allora segretario del Partito Liberale Italiano della Provincia di Trapani. Era costui un esaltato, che peraltro da giovanissimo aveva tentato il suicidio sparandosi addosso con un fucile.
Per fare di una lunga storia un racconto breve, dirò che io fui in grado di raggiungere Milano, dopo essere riuscito a passare attraverso un prolungato accerchiamento dei servizi segreti che davano copertura a Rosario De Gaetano e a una squadra composta dai suoi fratelli Francesco, Filippo, Gianfranco e altri loro accoliti.
Arrivato a Milano, io mi sarei rifugiato nella sede del quotidiano socialista "Avanti!", dove avrei passato alcune notti. Alessandro Garlatti, ch’era stato avvocato di Mondo Beat, avrebbe preparato allora una denuncia con la quale io accusavo esplicitamente i gesuiti Bartolomeo Sorge e Ennio Pintacuda di essere stati i mandanti degli omicidi di Mauro Rostagno e Alberto Giacomelli e la squadra di fuoco agli ordini di Rosario De Gaetano quella che avrebbe dovuto assassinare me. Da questa denuncia non si sarebbe sollevato uno scandalo politico, ma Bettino Craxi avrebbe aggiogato al carro socialista il Partito Liberale Italiano, che fin lì aveva orbitato intorno alla Democrazia Cristiana.
Io sarei rimasto allora due mesi e mezzo a Milano, poi, tornato a Calatafimi, avrei tenuto un affollatissimo comizio in cui avrei sparato a zero sul cardinale Salvatore Pappalardo, sui gesuiti Ennio Pintacuda e Bartolomeo Sorge e sul loro ex allievo Leoluca Orlando e così avrei concluso la mia campagna per i diritti civili (7 comizi e 2 manifesti murali). Sarebbe venuta allora a intervistarmi la TV dove aveva lavorato Mauro Rostagno. L’intervista avrebbe avuto alti ascolti, sarebbe stata replicata, e sarei stato segnalato al Maurizio Costanzo Show, che mi avrebbe reso famoso per le tante volte in cui sarei stato invitato a parlare dei miei viaggi intorno al mondo, ma questo non avrebbe cambiato la mia vita, perché non mi sarei dato alla carriera di comico, ma me ne sarei restato in trincea. Di fronte a me c’erano ancora i quattro fratelli De Gaetano, quelli che avrebbero dovuto eliminarmi fisicamente, ma ora essi venivano derisi dalla gente, allontanati dai politici locali, non ricevevano più contributi statali per la realizzazione di progetti fasulli. Ma la loro vita sarebbe stata risparmiata, perché protetti da Don Giovannino Malerba. Era costui un grande elettore dei Mattarella e perciò aveva ricevuto e riceveva una pioggia di contributi statali, coi quali aveva comprato terre, costruito due cinema, una cantina vitinicola, insomma, aveva creato, dal nulla, un potentato. E qui vale la pena di fare una breve disgressione per spiegare come i contributi statali in Sicilia venissero assegnati a grandi elettori democristiani, come Don Giovannino Malerba, o a loro protetti, o a amici degli amici, malavitosi al cui lavoro sporco il Vaticano avrebbe potuto ricorrere; altrimenti il resto dei soldi erogati dal governo italiano per programmi di sviluppo in Sicilia sarebbero stati rimandati al mittente, e si sarebbe trattato di montagne di soldi, perché il Vaticano non voleva che in Sicilia si sviluppasse qualcosa che non cadesse sotto il suo controllo.
E tornando a Don Giovannino Malerba, grande elettotre dei Mattarella, costui avrebbe protetto i De Gaetano perché era loro zio, essendo la madre di essi una Malerba. Ed era stato Don Giovannino che a suo tempo aveva suggerito la loro candidatura per il lavoro sporco che a Calatafimi qualcuno avrebbe dovuto fare, anche se, per le apparenze, li avrebbe tenuti a distanza. D’altro canto il sacerdote Diego Taranto, autorità morale del paese, che ammetteva però che per il bene della Chiesa del lavoro sporco si dovesse pur fare, aveva anche lui pensato ai quattro De Gaetano, perché la loro madre era apostata, avendo la signora Malerba abiurato alla fede cattolica per convertirsi ai Testimoni di Geova. Ove i quattro De Gaetano fossero finiti nell'occhio di un ciclone, Don Diego avrebbe potuto fare intendere durante un sermone che di loro stava parlando quando parlava dei castighi di Dio in cui incorrono i figli di quanti si allontanino dal sentiero della vera fede. Ma lì Don Diego si sarebbe fermato, perché non era suo compito interessarsi ai regolamenti di conti della malavita. E così i quattro De Gaetano non sarebbero stati eliminati per la loro inefficienza, ma sarebbero stati tenuti in uno stato di terrore, tanto che Rosario, l’ex segretario provinciale del Partito Liberale Italiano, temendo che gli potessero sparare, avrebbe camminato per strada facendosi affiancare dal figlio decenne.
E così, quelli che avrebbero dovuto uccidermi sarebbero stati traumatizzati a vedermi a Calatafimi in carne e ossa e scornati a vedermi in TV. E sospiri di rassegnazione avrebbero tirato i gesuiti, che avrebbero dovuto rimandare a altra occasione il momento d'introdurre il sistema del pizzo a Calatafimi, cui si era opposto mio padre prima e cui mi opponevo ora io. I carabinieri, che non avevano saputo nulla di nulla, né mai visto alcunché di strano, cadevano dalle nuvole.

Ed eravamo ora alla terza volta che avrebbero pianificato di uccidermi. Settembre 2004. Avevo compiuto da due settimane 65 anni. Cos’era cambiato a Calatafimi nei sedici anni intercorsi tra la seconda volta che avrebbero voluto uccidermi e ora?... Il sacerdote Diego Taranto, autorità morale del paese, era sempre lì, ultra ottantenne si prodigava ancora a fare eleggere sindaci che metteva al servizio del Vaticano: se fosse stata pianificata la mia morte, lui avrebbe certamente saputo, ma non avrebbe interferito, avrebbe atteso che si compisse la volontà di Dio... E Don Giovannino Malerba? Era pure lui lì, ultra novantenne continuava a scroccare contributi statali per sé e i suoi protetti. Don Giovannino certamente avrebbe saputo e avrebbe anche agito da nesso tra i servizi segreti e la malavita locale. E che ne era dei suoi nipoti, i quattro fratelli De Gaetano? Essi, come già detto, non essendo riusciti a uccidermi nel 1988, avevano causato un parapiglia politico a conseguenza del quale il Partito Liberale Italiano sarebbe uscito dall'orbita della Democrazia Cristiana e finito in quella del Partito Socialista Italiano. Erano stati perciò confinati in una sorta di isolamento sociale, tranne il più giovane dei fratelli, Gianfranco, che era stato assegnato alla scuola italiana di Istanbul, come insegnante di matematica. Mi sarei chiesto come uno con una coda di paglia come la sua fosse stato assegnato a una missione internazionale. E ancora, dopo alcuni anni a Istanbul, Gianfranco De Gaetano sarebbe stato assegnato alcuni anni ad Asmara, con lo stesso incarico di insegnante di matematica, e poi sarebbe tornato a Calatafimi, dove avrebbe subito ottenuto un contributo statale per la realizzazione di un progetto agriturismo, "Villa del Bosco". Avrebbe avuto pure la sorte che venisse rifatta la strada che da Calatafimi portava nella contrada dove sorgeva Villa del Bosco e fosse impiantata per la prima volta la palificazione elettrica in quella zona rurale. Quando si nasce fortunati! E tutto sarebbe stato così ben fatto che non si poteva credere di essere in Sicilia. Come quando si viaggia nel caotico sistema ferroviario di Roma e si arriva alla stazione San Pietro, vicina al Vaticano, e sembra di essere arrivati in Svizzera! E così, Villa del Bosco, dove si vedeva un turista ogni morte di papa, era una facciata dietro la quale Gianfranco De Gaetano operava nei servizi segreti.
Mentre stavo a riflettere, mi sarebbe venuto in mente Salvatore Giurintano, detto Orso. Che costui facesse parte della malavita locale non ci potevano essere dubbi, perché aveva ricevuto un contributo statale per la coltivazione di origano (!), col quale contributo s’era costruito un palazzotto in cima a una collina. Orso, che era uno colluso con i De Gaetano, ci aveva messo di mezzo i suoi bambini per agganciarmi al chiosco della villa comunale di Calatafimi, dove si passavano le serate di quell’estate 2004, e tanto aveva fatto che c’era riuscito. Ora, questa è una tecnica mafiosa, stabilire rapporti di amicizia con una persona che si vuole eliminare, cosicché si è facilitati nel compiere l’omicidio e si allontanano i sospetti da chi l’ha compiuto. Queste cose io le sapevo da 1600 anni, da quando, vandalo proveniente da Djerba, avevo distrutto Segesta, nel cui territorio avrei vissuto a tutt'oggi... M'era venuto in mente Orso perché, ogni volta che negli ultimi tempi avevo attraversato in macchina la Via Alcide De Gasperi venendo dalla mia campagna, avevo visto Orso, vuoi perché stava uscendo dalla sua pizzeria per entrare nella porta di casa, vuoi perché se ne stava a prendere il sole appoggiato a una ringhiera, e l'avevo visto che sempre avrebbe scrutato verso la mia vettura, e se non avrei visto lui, allora immancabilmente avrei visto suo fratello Rocco fare le stesse cose. Già 16 anni prima i De Gaetano e la loro squadra erano stati attrezzati elettronicamente per seguire gli spostamenti della mia vettura, figurarsi ora, con i passi da gigante che aveva compiuto la tecnologia.
E finalmente mi sarebbe venuto in mente che di recente, mentre mi recavo da mia madre, che ha casa adiacente al municipio di Calatafimi, avevo incrociato Alberto Provenzano alla guida della sua vettura, che al vedermi aveva fatto nei miei riguardi una smorfia di furore vendicativo. Costui era stato segretario comunale di Calatafimi e, riferendomi a lui, senza averne citato il nome, ne "Il Bambino Gesù mi vuole terrone" avevo scritto: "Durante la presidenza del socialista Pertini e l’amministrazione del socialista Craxi, ci fu impegno politico a modernizzare l’Italia. Furono assegnate allora somme di denaro ai comuni perché rendessero telematici i loro servizi. Nei comuni a controllo vaticano, come purtroppo il mio, furono comprati scientemente computer obsoleti, e i responsabili di ciò, come premio, furono poi sollevati da cariche comunali a cariche provinciali!". Aggiungo ora che i computer obsoleti erano stati comprati da Alberto Provenzano a Castellammare del Golfo, nell’agenzia della Olivetti di Carlo De Benedetti, un sionista che dalla Santa Sede ha avuto sempre assegnati i lavori più sporchi. Questo Alberto Provenzano, che aveva comprato scientemente i computer obsoleti, ovviamente sarebbe stato poi promosso da segretario comunale di Calatafimi a segretario della provincia di Trapani... E dunque Alberto Provenzano aveva fatto nei miei riguardi quella smorfia vendicativa perché aveva saputo dell'attentato che si stava preparando contro la mia vita. E a questo punto mi sarei alzato dall’amaca e sarei andato alla mia vettura, per recarmi a Calatafimi.
Raggiunsi il paese che faceva già sera e andai a cercare Orso nel quartiere Acquanuova, dove a quell’ora se la soleva fare e avendolo rintracciato gli dissi "Ti devo dare una brutta notizia". Al che a Orso sarebbe venuto una sorta di attacco cardiaco, perché aveva creduto che fosse successa una disgrazia a qualcuno dei suoi figli o a sua moglie. Io gli avrei dato tempo di soffrire. Poi gli avrei detto: "La brutta notizia è che io so che mi si vuole uccidere. Diglielo al segretario Alberto Provenzano".

Martedì 14 settembre passai la giornata in campagna, a preparare una bandiera con la scritta "Melchiorre Gerbino partecipa la sua conversione all’Islam". La bandiera era quella nazionale del Kenya. A portata di mano non ne avevo una musulmana con iscrizioni in arabo, ma quella bandiera del Kenya mi ricordava comunque la mia conversione all'Islam, che era avvenuta a Mombasa. La bandiera aveva la taglia perfetta per addobbare un balcone della casa di mia madre, che era in linea con un balcone del municipio.
Il giorno dopo esposi la bandiera al balcone. Mia madre viveva da sola ed era l'unica persona che avrebbe potuto obiettare che io lo facessi, e difatti si sarebbe mostrata preoccupata per la reazione che avrebbe potuto avere il sacerdote Diego Taranto. Ma costui sarebbe rimasto traumatizzato alla vista della bandiera e avrebbe vagato senza meta per le strade di Calatafimi, per giorni, trascinandosi sempre più pesantemente, finché sarebbe caduto a terra morto.
Lasciando la chiesa dove sarebbe avvenuta la funzione funebre, per raggiungere il cimitero la bara del sacerdote Diego Taranto avrebbe dovuto inevitabilmente passare sotto il balcone dove era esposta la mia bandiera e le autorità, per evitare di farlo, non avrebbero partecipato al funerale. Altrimenti alle esequie ci sarebbero stati i vescovi di Trapani e Mazara del Vallo e uno sciame di religiosi e ci sarebbero stati deputati e senatori della Democrazia Cristiana capitanati da Sergio Mattarella. Nessuno di costoro avrebbe seguito la bara, ognuno avrebbe addotto scuse. Sarebbero stati requisiti gli scolaretti delle scuole elementari e fatti sfilare a precedere il feretro. Sarebbe così uscito di scena un individuo cinico, che non avrebbe mai avuto titubanze a promuovere un giovane alla carriera di magistrato per poi metterlo in combutta con servizi segreti deviati e mafiosi; né titubanze perché si sostituissero nottetempo le schede elettorali nella sezione Chiesa Nuova per fare rieleggere così Nicola Cristaldi sindaco di Calatafimi; né avrebbe mostrato turbamenti a essere messo al corrente di come si pianificasse di uccidere Melchiorre Gerbino, dato che tutto questo veniva fatto per il bene della Chiesa.

Tornando ora all’ordine cronologico degli eventi, nei giorni 16,17,18 settembre, avrei avvertito come tutto si svolgeva normalmente a Calatafimi e così nella mia terra, dove potevo percepirlo dal canto degli uccelli, che tacciono se qualcuno vi si sposta. In quei giorni mi dedicai intensamente ai lavori di restauro della casa.

Domenica 19 settembre, un poco prima delle sette del mattino arrivavo al Bar Grazia nel quartiere Sasi, per vedere alla tv il gran premio del Giappone di moto GP. Io non volevo televisore a casa, per non oziare a guardare la tv, ma i gran premi di moto GP li avrei guardati, perché mi piaceva vedere cosa riusciva a scombussolare Valentino Rossi con una moto. Saranno state dunque le sette e mezzo del mattino di quella domenica 19 settembre, quando al Bar Grazia arrivava Maurizio Saccaro, vestito con una elegantissima tuta di pompiere del Corpo forestale, e veniva verso di me con un bel sorriso - "Lo vuoi un caffè?" - mi chiedeva. Gli rispondevo: "Sì grazie" - E allora egli si sarebbe diretto verso la macchina del caffè, che si trovava in una stanza attigua, e intanto con pollice e indice avrebbe cercato qualcosa in una tasca della tuta, quella sul cuore.
Se non fossi stato avvertito che mi si voleva avvelenare, non avrei avuto sospetti, e poi di Maurizio Saccaro! Eravamo amici. Gli avevo pure prestato 400.000 lire e 25 cantoni di tufo, e non gli avevo mai fatto premura per averli restituiti. E però mi alzai e lo seguii. Dissi al barman- "Il mio caffè un po' lungo, per piacere" - e presa la tazza tornai indietro, seguito da Maurizio Saccaro che reggeva la sua tazza. Ci saremmo seduti assieme. Allora sarebbero entrati nel bar due marescialli dei carabinieri, in borghese, il maresciallo Maiorana e un altro di cui non conoscevo il nome, e dopo di loro sarebbe entrato il geometra Salvatore Lucido, un accolito dei De Gaetano, uno che preparava i progetti dei contributi statali per gli amici degli amici. I due marescialli avrebbero sostato all'impiedi a un lato dell'entrata del bar, il geometra Salvatore Lucido all'altro lato.
Ma siccome io avrei continuato a sorseggiare il mio caffè, i tre avrebbero capito che il Saccaro non era riuscito ad avvelenarmi, e se ne sarebbero andati. Dopo un poco se ne sarebbe andato pure il Saccaro. Devo dire che la faccia del maresciallo Maiorana era stata tesa e dispiaciuta, quella dell’altro maresciallo professionale, quella del geometra Lucido con una sfumatura di sorriso sardonico, perché si sarebbe aspettato di vedermi rotolare a terra in convulsioni. Mi chiedo cosa sarebbe successo se fossi stato avvelenato. Certamente i due marescialli, che si erano trovati lì per caso, avrebbero dichiarato che ero stato colto da improvviso malore, ma già qualcuno mi avrebbe trasportato al più vicino ospedale, quello di Alcamo, dove un medico amico degli amici avrebbe stilato un certificato di morte per infarto. Nella stessa giornata, qualche mio conoscente avrebbe esibito un testamento in cui io dichiaravo che in caso di morte avrei voluto essere cremato. Non avrebbero potuto farmi un funerale in chiesa, perché mi ero convertito all’Islam, ma in municipio si sarebbe tenuta l’orazione funebre e il sindaco Nicolò Cristaldi avrebbe detto - "... Sì, c'è stato qualche disaccordo tra questa amministrazione comunale e Melchiorre Gerbino. Ma non è forse normale che in democrazia ci possano essere disaccordi?... I consiglieri comunali hanno decretato all’unanimità che le esequie siano a carico della comunità, perché Melchiorre Gerbino è stato un cittadino illustre di Calatafimi. MELCHIORRE GERBINO É UN CITTADINO ILLUSTRE DI CALATAFIMI, PERCHÉ EGLI VIVE! (applausi prolungati)..." - e il forno crematorio sarebbe già stato incandescente.

La mattina del 20 settembre mi sarei recavo in contrada Tre Croci, dove il frate francescano Bernardo Critti aveva una casa di campagna. Eravamo amici, perciò gli avrei raccontato quanto era successo da quando era stato pubblicato il saggio "Il Bambino Gesù mi vuole terrone". Padre Bernardo era intimo del cardinale primate di Sicilia e perciò gli avrei chiesto se in qualche modo poteva aiutarmi a farmi venire fuori da questa vicenda vivo.

Dal 20 al 22 settembre avrei lavorato al restauro della mia casa. In quei giorni sarei andato spesso a Calatafimi per acquistare materiali. Ogni volta che sarei passato davanti la caserma dei carabinieri, che era sulla mia strada, vi avrei notato parcheggiate tre o quattro auto con targhe civili, che non s'erano mai viste prima. Inoltre in paese avrei notato di essere pedinato da persone del giro dei fratelli De Gaetano, uno essendo Giuseppe Scandariato, detto Pippineddu, che lavorava a Villa del Bosco; un altro Gaetano Pampalone, detto Scarafaggio, cugino dei De Gaetano, e pure tra quelli che mi pedinavano c'era il bibliotecario comunale Giovanni Bruccoleri, fratello di quel prete truffaldino, Michelangelo Bruccoleri, che io avevo fatto scappare da Calatafimi. Tutti costoro nel pedinarmi tenevano una mano in una tasca della giacca, come a manipolare qualcosa.
Mi chiedevo inoltre chi fosse in verità Nathan, l'unico turista a Villa del Bosco, con il quale mi ero intrattenuto un po' di tempo le sere nel chiosco del giardino comunale di Calatafimi. Era venuto due volte nella mia terra, dove, rapito dalla natura, si era perso per un bel po' di tempo. Mi aveva detto di essere uno studioso americano, che stava facendo ricerche storiche a Calatafimi e a Modica. Non gli avevo chiesto se fosse ebreo, perché potevo capire io stesso che lo era, ma stranamente lui non me l'aveva detto, quando di solito gli ebrei lo fanno.
Riflettevo inoltre su come Camillo Rizzo fosse tornato a Calatafimi, dopo un mese di assenza, alla guida di una potente vettura nuova, mentre prima lo si era visto con una vecchia utilitaria sgangherata. Costui, che era responsabile del sito web del comune di Calatafimi, era in costante contatto col sindaco Cristaldi. Riflettevo su questo Camillo Rizzo perché avevo avuto il sospetto che aveva tentato di colpirmi con la scarica di un Taser camuffato da accendino. Di scarica Taser avevo esperienza, perché ne avevo subita una a Milano nella sede di Mondo Beat, ai tempi in cui dirigevo il Movimento.
Infine, mi sarei reso conto di come l'avvocato Gaspare Denaro fosse coinvolto in quello che stava accadendo. Era successo che, per andare ad Alcamo a comprare materiali, io avevo momentaneamente scambiato la mia vettura con quella di uno dei miei fratelli, che aveva bagagliaio più ampio. Quando quelli che mi monitoravano se ne sarebbero resi conto, perché avrebbero visto un altro alla guida della mia vettura, avrebbero considerato che con uno stratagemma io avrei potuto evadere da Calatafimi e perciò avrebbero deciso di presidiare gli svincoli delle strade che connettevano il paese col territorio circostante. Uno cui sarebbe stato assegnato questo compito sarebbe stato l'avvocato Gaspare Denaro. Era costui uno che aveva ricevuto un contributo statale per la creazione di una cantina vitivinicola, ma questa cantina, che era sorta da più di quarant'anni, non aveva ancora prodotto una sola bottiglia di vino! Chi sa cosa vi succedeva.

La mattina del 23 settembre Maurizio Saccaro, quello che aveva già tentato di avvelenarmi, mi avrebbe raggiunto mentre entravo nel Bar Mazara e con grande calore mi avrebbe detto: "Beviamo un caffè!"
Allora mi sarei reso conto di come frate Bernardo Critti, al quale avevo chiesto di fermare il corso degli eventi, non c'era riuscito.
Rivoltomi al Saccaro, ad alta voce, perché altri sentissero, dissi : "Non voglio un caffè da te! E non voglio che tu venga nella mia terra per nessun motivo!".
Dal telefono di mia madre, che ovviamente era monitorato dai servizi segreti, chiamai Marco Philopat Galliani, assieme al quale dovevo pubblicare un libro su Mondo Beat e sulla mia vita, e gli dissi che stavano tentando di uccidermi a Calatafimi. Marco Philopat, che sarebbe rimasto scioccato dal mio dire, mi avrebbe assicurato che il regista Francesco Galli sarebbe presto venuto da Milano a Calatafimi per intervistarmi.
Per dare fastidi ai servizi segreti, dal telefono di mia madre chiamai poi l'Hermes Hotel di Mombasa, dove avevo vissuto un mese al tempo della mia conversione all'Islam, e dissi a Matano, il recezionista dell'hotel, di riferire al capo che avrei mantenuto l'impegno e che si tenessero pronti (Matano avrebbe riferito al padrone dell'hotel che aveva telefonato Mel e aveva confermato la sua venuta a Mombasa e l'intenzione di affittare una stanza per un mese, pagamento anticipato, per avere uno sconto). Non sapevo cosa avrebbero congetturato quelli dei servizi segreti, ma presumevo che avrebbero dovuto fare indagini sull'Hermes Hotel di Mombasa.
Dopo le telefonate a Marco Philopat Galliani e a Matano, mi sarei recato a Alcamo, a riscuotere dei soldi da una signora cui avevo venduto dei quadri, e poi a Vita a comprare materiali per il restauro della casa.

Il 24 settembre aumentavano gli agenti in borghese che circolavano per Calatafimi fingendosi turisti e sarebbe pure arrivata una vettura di carabinieri, con quattro di loro a bordo, che non s'era mai vista prima.

Il 25 settembre mi arrivava da Roma una telefonata da Anna Maria Ballarati. Era la seconda volta che questa signora mi telefonava. La prima volta era stata agli inizi di settembre, quando ancora non sapevo che mi volevano avvelenare. Con quella prima telefonata la signora Ballarati m’aveva chiesto se programmavo di recarmi presto a Roma, perché lei stava organizzando degli eventi cui le sarebbe piaciuto che io presenziassi. Siccome ero un volto noto ricevevo inviti e siccome nell'ultimo periodo in cui ero stato a Roma avevo bevuto un po' troppo e avevo dato il numero del mio telefono cellulare a tutti quelli che me l'avevano chiesto, ricevevo talvolta telefonate di persone di cui non mi ricordavo più e, per essere cortese, fingevo di ricordarmene. Durante la prima telefonata la signora Anna Maria Ballarati m’aveva chiesto "Ma tu, ti ricordi chi sono?", e io, per essere cortese, avevo risposto "Ma certo che mi ricordo! Non appena arrivo a Roma ti chiamo". Ora mi arrivava un’altra telefonata dalla Ballarati, la quale a un tratto mi diceva "Vieni presto! Che ti vuole anche l’Anita, che sta organizzando degli eventi interessanti". Allora mi sarei ricordato che Anna Maria Ballarati era amica di Anita Garibaldi. Le dissi - "Ora ti devo lasciare, ti chiamo più tardi" - e andai a sprofondarmi in una poltrona.
E dunque la regia del mio omicidio era curata da Turiddu, così io stesso avevo soprannominato il professore Salvatore Spinello, e questo nomignolo, che a lui era piaciuto, perché ricordava quello di Salvatore Giuliano, gli era rimasto.
E così, siccome Salvatore Spinello aveva pianificato di eliminarmi a Roma, Anna Maria Ballarati sarebbe stata incaricata di invitarmi lì. Ma siccome io non sarei andato, perché impegnato nei lavori di restauro della mia casa, Salvatore Spinello avrebbe deciso di farmi eliminare a Calatafimi e Anita Garibaldi, che non c'era mai venuta per la ricorrenza della Battaglia, ci sarebbe venuta per dare consegne al sindaco Nicolò Cristaldi (ed ecco perché s’era mostrata fredda con me, sbagliando come al solito, perché l’assassino deve mostrarsi caloroso con la vittima predestinata). Infine, poiché Salvatore Spinello si sarebbe reso conto di come io sospettassi che a Calatafimi volessero uccidermi, mi avrebbe fatto chiamare di nuovo da Anna Maria Ballarati, a farmi urgenza perché io mi recassi a Roma, per uccidermi lì, cosiccome aveva programmato agli inizi.
Decisi allora di giocare a carte scoperte e inviai al cellulare di Anna Maria Ballarati questo messaggio "Salutami Turiddu".
Due ore dopo mi sarebbe arrivato un messaggio da Anna Maria Ballarati "Chi è Turiddu? Io non conosco nessun Turiddu. Io conosco Anita Garibaldi, Caterina Caselli... Vedi che ti sbagli!".
E da come Anna Maria Ballarati mi avrebbe risposto, avrei avuto la certezza di come il misterioso Salvatore Spinello altri non fosse che il Luca Brasi del Vaticano. E faceva l'assassino per narcisismo, perché non lo pagavano, e difatti era sempre senza un soldo, al punto da doversi nascondere dietro la porta della Serenissima Gran Loggia Mistica degli A.L.A.M. perché non poteva saldare il conto a uno cui aveva sbattuto la vettura con la sua, che era pure senza assicurazione, tanta era la di lui miseria... E se questo vecchio narciso demente fosse finito nell'occhio del ciclone di qualche inchiesta giudiziaria, allora il Vaticano avrebbe potuto gridare "Al massone!" e generare confusione nell'opinione pubblica, a far credere che le malefatte originassero dall'altra confessione massonica, quella di Palazzo Giustiniani, quella di quelli che pestano l'anello. E che raffinata vendetta del Vaticano se nell'occhio del ciclone fosse finita pure Anita Garibaldi, che col suo nome e cognome avrebbe disonorato l'Eroina di Porto Alegre e l'Eroe dei Due Mondi: con quest'ultimo il Vaticano ce l'aveva a morte, perché Giuseppe Garibaldi aveva confiscato i beni della Chiesa per procedere con la campagna dei Mille.

Tra il 26 settembre e il 7 ottobre ci sarebbero state due settimane di stallo, durante le quali Salvatore Spinello avrebbe messo a punto una nuova strategia per eliminarmi, mentre io avrei terminato i restauri della casa.

Il giorno 8 ottobre, verso le 11 del mattino, mentre attraversavo in macchina il paese per andare a casa di mia madre, erano tanti gli agenti in borghese che andavo scorgendo, che ebbi sentore che qualcosa di fatale mi potesse succedere da un momento all’altro.
Appena parcheggiata la macchina in Piazza Plebiscito, mi correva incontro Maurizio Saccaro, quello che per due volte aveva tentato di avvelenarmi, e con aria offesa mi diceva "Ma scusa, perché l'altro giorno ti sei arrabbiato con me?! "
Senza rispondergli, risalivo in macchina e ripartivo verso la mia campagna. Da lì chiamavo al telefono la mia amica milanese Pinuccia Bartolini e le dicevo "Prendi carta e penna e scrivi: A Calatafimi stanno uccidendo Melchiorre Gerbino. L’operazione è condotta da Salvatore Spinello, che dirige agenti dei servizi segreti che danno copertura a criminali locali" - E le chiesi di mandare email e fax ai maggiori quotidiani.
La mia amica era spaventata e confusa. Ma io in realtà non m’aspettavo aiuto da lei, ma parlavo per essere udito da quelli che monitoravano il mio telefono. E allo scopo giocai una carta che tenevo di riserva. Dissi a Pinuccia Bartolini - "Quello che ora ti sto per dire non trascriverlo, è detto perché lo ascoltino quelli che tengono il mio telefono sotto controllo. Tu sai qualcosa dei turchi?!"
- E la mia amica, poveretta, confusa - "Ma quali turchi?".
- E io - "Quei turchi che giocano in quattro tavoli, con gli Stati Uniti, con l’Unione Europea, con Israele, con l’Arabia Saudita. Tu ti confideresti coi turchi?"
- E la mia amica - "Mel, ma sei ubriaco?".
- E io - "No, non sono ubriaco. Gianfranco De Gaetano fa confidenze ai turchi. Si fece incastrare dai turchi quando era assegnato a Istanbul. E ci sono le tracce nel Web. Gianfranco De Gaetano è una carta del mazzo con cui stiamo giocando, che io ora giro a Salvatore Spinello". E Turiddu sarebbe andato in tilt. E difatti non avrebbe potuto procedere col mio omicidio senza avere prima verificato quali rapporti ci fossero tra Gianfranco De Gaetano e i turchi.
E dopo quella giocata, nella stessa giornata gli agenti in borghese si sarebbero dileguati da Calatafimi e pure la macchina extra con i quattro carabinieri sarebbe scomparsa e i piccoli delinquenti locali che mi pedinavano avrebbero mostrato facce solenni. Su Calatafimi quel giorno sarebbe calato un gran silenzio. La gente avrebbe continuato a fingere di non avere notato nulla di strano. E non per omertà, ma per terrore, che mai nella storia della Sicilia dittatura é stata più funesta e vergognosa di questa che sta esercitando ai giorni nostri il Vaticano, questo nanerottolo romano che non può reggere il mondo con la spada.

Lei, onorevole Antonio D’Alì, sottosegretario agli Interni del governo italiano, che vivendo a Trapani è a un tiro di cerbottana da dove vivo io, di tutti questi agenti segreti assegnati a Calatafimi non ha saputo nulla? É gravissimo se lei ne é rimasto all'oscuro! Ed è ancor più grave se ha saputo.

Il 9 e 10 ottobre mi dedicai a lavori di campagna. Nei momenti di riposo avrei inviato vari messaggi, citando nomi e fatti, nell’intento di lasciarne memoria ove fossi stato ucciso.
Il più vigliacco di quelli che ricevettero un messaggio, uno che per ironia della sua sorte si chiamava Libero, mi rispose "Come ti permetti?".
Ad Anna Maria Ballarati inviai questo messaggio "Allontanati dalla coppia di assassini! Pentiti! Convertiti all’Islam".
Un’ora dopo la Ballarati mi rimandava lo stesso testo con l’aggiunta "Vedi che ti sbagli di persona!".

L'11 ottobre di primo pomeriggio, mentre mi rilassavo in un'amaca sotto un ulivo, senza preavviso arrivava Nathan, quel turista americano che alloggiava a Villa del Bosco. Assieme a lui c'era un altro. Dissi loro che non potevo riceverli perché ero occupato. Nathan avrebbe insistito a volermi presentare il suo amico americano, ma io avrei ribadito che non potevo riceverli. Quindi se ne sarebbero andati. Allora avrei considerato come sembravano entrambi ebrei, ma non ebrei americani come pretendevano di essere. Soprattutto l'amico di Nathan non sembrava per niente americano. Così mi sarei reso conto di come fossero israeliani. E avrei capito come il sionista Carlo De Benedetti, che faceva i lavori più sporchi per il Vaticano (ho già accennato alla vendita di computer obsoleti per ritardare lo sviluppo nel Sud Italia) aveva fatto venire questi ragazzi da Israele perché portassero sofisticate apparecchiature di monitoraggio. E difatti quelli che mi pedinavano a Calatafimi avevano qualcosa in una tasca della giacca che manipolavano. Certo che se questa sofisticata attrezzatura, di cui stavano dando dimostrazione sulla mia pelle, fosse stata poi adottata dalla criminalità organizzata nel Mezzogiorno, Carlo De Benedetti e il Mossad avrebbero fatto dei buoni affari.

Dall’11 al 14 ottobre mi sarei dedicato a lavori di campagna. A Calatafimi, dove mi recavo una o due volte al giorno, ero sempre pedinato da quelli con una mano in tasca alla giacca, ma potevo avvertire che la pressione su di me si era allentata, perché Salvatore Spinello stava indagando su Gianfranco De Gaetano e i suoi legami coi turchi e perché sapeva che a Calatafimi sarebbe arrivato presto qualcuno a intervistarmi.
Intanto Marco Philopat Galliani mi avrebbe comunicato che gli era stato chiesto un abboccamento da parte di Gianni De Martino, la spia che in Marocco aveva cercato di farmi assassinare. Dissi a Galliani di buttarlo fuori dalla casa editrice a calci nel sedere e Galliani mi avrebbe assicurato che l'avrebbe fatto.

Il 15 ottobre arrivavano da me Francesco Galli e Tamara Vignati, per una intervista televisiva. Mi avrebbero ripreso in casa, nella campagna, a Calatafimi. Avrebbero dormito una notte da me e il giorno dopo sarebbero ripartiti per Napoli, dove stavano girando un film. Ovviamente io non partii assieme a loro, perché sarei stato intercettato e sarei poi sparito in un bagno d'acido.

Tra il 17 e il 20 ottobre veniva predisposto intorno a me un accerchiamento di carabinieri dei servizi segreti coordinati con malavita locale .
Da una telefonata di Marco Philopat Galliani, che aveva incontrato Gianni De Martino, mi sarei reso conto di come Galliani s’era tirato i remi in barca, impaurito dalle minacce che gli erano state profferite. Avrei troncato il rapporto con lui senza indugi, per non esporre il fianco alla falsa amicizia di un vigliacco.

La mattina del 21 ottobre, mentre mi trovavo a Calatafimi, sentii intorno a me una stretta tale che decisi di non tornare in campagna, per non correre il rischio, strada facendo, di essere kidnappato o avvelenato a forza.
Nel tardo pomeriggio di quel giorno, seduto sull’orlo della fontana dell’Acquanuova, c’era Gianfranco De Gaetano. Sembrava stanco, forse a causa degli interrogatori sui turchi a cui era stato sottoposto. Accanto a lui sedeva il mio falegname, Mariano Maimone. Costui era stato presidente del consiglio comunale di Calatafimi durante un paio di anni, ma di recente era stato sostituito da un altro consigliere ed era perciò un po' malinconico. Appena i due mi videro, se ne andarono a parlottare altrove. Mariano Maimone non era un mio amico, ma si poteva dire che era politicamente vicino a me in qualche modo, perché si professava socialista. Di recente era stato a casa mia per restaurare un mobile... Possibile che Gianfranco De Gaetano stesse consegnando a Mariano Maimone quel testamento in cui io dichiaravo di volere essere incenerito in caso di morte?
Quella notte dormii nella mia vettura, parcheggiata nel cuore di Calatafimi, Piazza Plebiscito, dove ero nato.

La mattina del 22 ottobre feci la doccia a casa di mia madre. Poi avrei fatto vita di paese e andando a zonzo mi sarei reso conto di come i bar fossero presidiati da allevatori di bestiame. Immaginai che se fossi uscito in macchina dal paese, sarei stato affiancato e prelevato a forza. Non toccai la macchina durante tutta la giornata e la notte dormii su una coperta, nel sottoscala della casa di mia madre, a sua insaputa.

All'alba del 23 ottobre inviavo al cellulare del sindaco Nicolò Cristaldi, che da un paio di settimane attendeva a Roma la notizia di come mi avessero ammazzato a Calatafimi, questo messaggio: "Apprendo da Gianfranco De Gaetano del nuovo incarico al mio falegname Mariano Maimone. Congratulazioni! Melchiorre Gerbino". - Ciò avrei fatto per fargli intendere che avevo capito del testamento falso. Ne inviavo pure copia a Camillo Rizzo, quello dell'accendino Taser, sul cui cellulare solevo scaricare copia dei messaggi di cui volevo che venisse a conoscenza Salvatore Spinello.
Nella mattinata, andando a zonzo per le vie del paese, avrei notato che la situazione era la stessa del giorno precedente, gli allevatori di bestiame aspettando che io uscissi in macchina dal paese per prelevarmi di forza.
Verso le 11,30 mi mettevo in macchina e mi avviavo come per andare in campagna, ma subito all'uscita del paese mi parcheggiavo. Di fronte c'era la caserma dei carabinieri. Suonavo. Mi si apriva il cancello. Mi avviavo verso l'edificio, entravo, mi sedevo nella saletta d'attesa. Ero solo.
Arrivava presto un militare - "Buon giorno, signor Gerbino".
"Buon giorno. Vorrei presentare una denuncia".
"Attenda un attimo".
Tra me e i carabinieri di Calatafimi c'era stato lungo tutto l'arco di questo affare un rapporto silenzioso di cortesia: loro avevano mostrato delle facce turbate per un lavoro che non avevano pensato che sarebbero stati chiamati a fare; io avevo espresso sentimenti di malinconia per il karma di terrone in cui ognuno di noi era costretto.
Il brigadiere Tiziano Maggitti sarebbe prontamente arrivato e si sarebbe rivolto a me con cordiale professionalità - "Di che si tratta, Signor Gerbino?"
Accomodatomi nel suo ufficio, dissi che volevo sporgere una denuncia. Sospettavo che Gianfranco Monti, il mio editore a Milano, fosse morto avvelenato ed ero certo di come la mia vita fosse a rischio a Calatafimi, essendo io pedinato da gente collusa con i De Gaetano, di cui facevo i nomi perché fossero messi a verbale. Aggiungevo che avevo il sospetto che i due turisti che albergavano a Villa del Bosco fossero agenti israeliani coinvolti anch'essi in quello che sembrava essere un piano per uccidermi.
Il brigadiere Maggitti recepiva tutto quello che io dichiaravo con grande professionalità, senza fare commenti di sorta, solo si sforzava di stendere il verbale in un bell'italiano, e io collaboravo allo scopo (ricordiamoci, in qualsiasi circostanza, che "l'Italia è la culla del diritto"!).
Infine, avrei chiesto e ottenuto copia del verbale della mia denuncia e dopo una cordiale stretta di mano al brigadiere, sarei tornato alla mia vettura e in paese.
Dopo la mia denuncia, con una tempestività da tecnologia satellitare, sarebbero scomparsi quelli che mi pedinavano con una mano in tasca, ma l'accerchiamento intorno a me sarebbe stato rafforzato dagli allevatori di bestiame, che io non avevo denunciati.
A questo punto decisi di fare uscire Turiddu dal suo guscio, colpendolo nel suo narcisismo, nella speranza che, infuriato, commettesse errori.
Mandai dunque a Anna Maria Ballarati questo messaggio "Ti prego comunicare al professor Spinello: Vecchio assassino fallito, tale è la tua meschinità, che non riesci a trovare la forza di suicidarti!". Copia del messaggio mandavo a un avvocato massone (vero, di quelli che pestano l'anello), perché se ne parlasse in giro, e copia mandavo a Camillo Rizzo, per fare infuriare ancor di più Turiddu.
Anche quella notte avrei dormito nel sottoscala della casa di mia madre.

Domenica 24 ottobre mattina, andando in giro per il paese avrei notato come gli allevatori di bestime stessero presidiando ancora i bar, aspettando che io mi recassi in campagna. Ma io avrei deciso di trascorrere la giornata a Calatafimi.
Nel pomeriggio, due nuovi turisti, che alloggiavano a Villa del Bosco e sembravano israeliani, facevano un giro per le strade di Calatafimi, mentre Nathan e l'altro erano spariti a seguito della mia denuncia.
La sera di quella domenica, l'illuminazione stradale a Calatafimi era abbagliante e tanta gente era per le strade del centro. Per rilassarmi, sarei andato a vedere una partita di calcio alla tv, nei locali di Spillo. Quando di tanto in tanto sarei uscito da quei locali, mi sarei ritrovato tra gli allevatori di bestiame, che fingevano di oziare, alcuni seduti in panchine pubbliche, altri nei bar, ma tutti loro sarebbero stranamente spariti intorno alle 22, mentre molta gente restava ancora per le strade.
Accanto all'edificio delle Poste c'era un venditore di castagne e un'atmosfera festosa tutt'intorno. Essendo andato lì, avrei notato la signora Guida, la moglie di Filippo De Gaetano, appoggiata a una vettura, al volante della quale sedeva lo stesso De Gaetano. Mi ero avvicinato tanto a loro che avrei potuto sentire come la signora Guida dicesse al marito: "Si sta avvicinando qui" - riferendosi a me. Ma siccome ero abituato a stare in mezzo a nemici, non me ne sarei preoccupato. Mentre tornavo verso i locali di Spillo, che si trovavano in un vicolo, mi sarei voltato d'istinto nello stesso momento in cui Filippo De Gaetano era entrato nel vicolo al volante della sua vettura e stava digrignando i denti perché non era arrivato in tempo per spararmi, essendo io ormai nell'entrata dei locali. Allora egli avrebbe fatto prontamente marcia indietro e io prontamente sarei andato a vedere dove si sarebbe diretto. Sarebbe tornato allo stesso posto dove era stato parcheggiato prima.
E così, dopo il mio messaggio di insulti, Salvatore Spinello aveva perso la testa e aveva ordinato che mi si uccidesse con ogni mezzo e a qualsiasi costo.
Allora mi appoggiai a una ringhiera, a una distanza tale da non potere essere raggiunto da un colpo di pistola, e cominciai a fare delle boccacce in direzione di Filippo De Gaetano, per renderlo furioso, perché mi rincorresse tra la gente con la pistola in pugno. Ma il De Gaetano avrebbe saputo controllarsi. Dopo un po' me ne sarei andato, e anche quella notte mi sarei rifugiato nel sottoscala della casa di mia madre.

La mattina del 25 ottobre 2004 Calatafimi sembrava una città disabitata. Solo s'intravedevano delle ombre che subito svanivano. Era il giorno in cui Melchiorre Gerbino avrebbe dovuto essere ucciso e la gente non restava nelle strade.
A Piazza Plebiscito, non lontana dalla mia Fiat Panda, c’era parcheggiata una macchina imponente, a vetri affumicati, quella dell’allevatore Pedone, che aveva pecore nella contrada Sasi. Il Pedone sedeva sotto la statua di Garibaldi e gli facevano compagnia un certo Michele e il bibliotecario comunale Giovanni Bruccoleri, fratello di quel prete truffaldino che io avevo fatto scappare da Calatafimi, di cui ora il fratello bibliotecario voleva vendicare l'onore. I tre facevano sembianze di come non stesse succedendo nulla di speciale e anch'io ero rilassato e passeggiavo su e giù per la piazza. A un certo punto però, come preso da un pensiero, io sarei andato verso casa di mia madre, che era vicino alla piazza, ma non visibile dalla statua di Garibaldi, e poi, dopo un paio di minuti, sarei tornato alla mia vettura, che avrei aperto per cercare qualcosa che però non sarei riuscito a trovare. E allora, lasciando la vettura aperta, sarei tornato indietro a passi veloci e quando fuori dalla vista dei tre, sarei sceso per un vicolo che partiva da un lato della casa di mia madre. Arrivato in Corso Garibaldi, mi sarei messo a camminare flemmaticamente in mezzo alla strada. Tutti i balconi erano chiusi. Nessuno voleva assistere all'uccisione di Melchiorre Gerbino. In Piazza Pietro Nocito, al lato opposto della casa dei De Gaetano c'era un arco da cui partiva una stradina ripida. La discesi e attraversai velocemente i quartieri Circiara e Aciddittu e arrivato alla tangenziale bloccai subito un camion che stava arrivando, parandomici davanti. Al volante c'era Paolo Donato, un ragazzo che conoscevo per le sue gare di motocross. Paolo mi aprì la portiera e io salii e gli dissi: "Sto male. Ho qualcosa che mi fa male al cuore. Tu dove stai andando?"
"Vado a Trapani -mi disse- Lì ti posso lasciare in un ospedale" (per inciso, a Calatafimi non ci sono ospedali).
"Grazie. -dissi- Permettimi di distendermi nella tua cuccetta, per favore" - e lo feci in tempo per non essere visto da quelli che sicuramente stavano a guardia nel bivio della statale 113, dove stavamo per arrivare.
Arrivammo a Trapani mezz'ora dopo. Paolo avrebbe insistito per portarmi in un ospedale, ma io gli avrei detto che mi ci sarei recato da solo, perché prima volevo prendere una boccata d'aria di mare, e così sarei sceso dal camion nell’area portuale.
Alle 21,30 salpavo da Trapani col traghetto "Toscana" alla volta della Sardegna.

Il 26 ottobre, alle 8,30 del mattino, sbarcavo a Cagliari. Ne ripartivo in treno alle 10,05 e alle 11,20 arrivavo a Oristano, dove pranzavo.
La proprietaria del ristorante, che mi aveva riconosciuto per le mie partecipazioni al Maurizio Costanzo Show, mi disse - "Signor Gerbino, lei deve assolutamente tornare a Oristano per il carnevale!"
E io - "Signora, quanto mi farebbe piacere! Ma come posso prometterlo, con tutti gli impegni che ho?"
Ripartii in treno da Oristano alle 13,20 e arrivai a Olbia alle 16,30. Da lì avrei subito preso un autobus per Palau e da Palau un altro per Santa Teresa di Gallura, dove sarei arrivato alle 21, ma troppo tardi per potere traghettare in Corsica.
A Santa Teresa di Gallura cenai al ristorante "Azzurra" e passai la notte nascosto tra cespugli di mortella, per non essere registrato in un albergo.
Il 27 ottobre alle 7,30 del mattino salpai da Santa Teresa di Gallura con un traghetto della Saremar e un’ora dopo sarei sbarcato a Bonifacio, Francia.
Avevo con me qualche centinaio di euro, la patente di guida automobilistica e, sotto la camicia, la pelle, per grazia di Dio.


Ma i miei guai non sarebbero finiti allora.
In sintesi:
- Avendo raggiunto la Francia, dove sarei rimasto 8 mesi, avrebbero tentato di uccidermi i servizi segreti francesi, col Taser, con cioccolatini avvelenati, avendo programmato di buttarmi giù dalla stanza del quinto piano dell'albergo dove alloggiavo a Parigi.
- In Svizzera, dove sarei rimasto 9 mesi, a Berna i servizi segreti svizzeri avrebbero programmato di buttarmi giù da una finestra dell'appartamento di un amico cui insegnavo latino. Avrebbero tentato due volte di kidnapparmi coordinati con la CIA (extraordinary rendition). A Ginevra sarei stato colpito con una scarica Taser.
- In Danimarca avrebbero tentato di uccidermi prima i servizi segreti polacchi, col Taser, e poi quelli danesi. E a Copenaghen sarei stato colpito in una strada centrale, in una tarda serata, da una scarica Taser, non so se da agenti di servizi polacchi o danesi.
- A Oslo avrebbero tentato di uccidermi col Taser i servizi segreti polacchi e nella biblioteca centrale di Oslo sarei stato colpito da una scarica.
- Nella Gran Canaria, a Las Palmas, avrebbero tentato di uccidermi i servizi segreti spagnoli, col Taser.
- Alle Fiji, nell'Isola di Viti Levu, nella località Volivoli, una fanciulla del Mossad avrebbe tentato di uccidermi con vino avvelenato.
- A Kampala, Kigali e Dar es Salaam avrebbero tentato di uccidermi col Taser agenti rispettivamente ugandesi, rwandesi e tanzaniani, coordinati con la CIA.
- A Dubai, avrebbero tentato di uccidermi prima agenti dei servizi segreti italiani, poi agenti del Mossad. Non so come gli uni e gli altri si predisponessero a farlo, ma certamente erano venuti per uccidermi.
- In Cina, a Nanning, in un youth hostel, gestito dietro le quinte dal Mossad, loro agenti avrebbero tentato di uccidermi col Taser. Ad Hanoi si sarebbe verificata la stessa situazione in un altro youth hostel, gestito anche questo dietro le quinte dal Mossad.
- A Sumatra, nella città di Padang, avrebbero cercato di uccidermi agenti polacchi, che molto probabilmente operavano in Indonesia con la copertura della locale Chiesa Cattolica. Non so come intendessero eliminarmi, ma certamente in maniera elaborata, perché uno di quegli agenti era un mio sosia.
Capisco come possa sembrare inverosimile quanto da me descritto, ma si può prendere visione di alcune denunce da me fatte.
Si può leggere la mia lettera aperta al Primo Ministro del Vietnam, da me pubblicata nel sito internet del Primo Ministro: CIA and Mossad agents trying to kill tourists in Vietnam.
Si può leggere quanto da me fatto pervenire, tramite ambasciata, alle massime autorità della Cina: Is it not urgent for China to cut off diplomatic relations with Israel?
Si può prendere visione di questa denuncia da me fatta in un comando di polizia in Gran Canaria: Cuando el Vaticano intentó hacer asesinar a Melchiorre Gerbino en Gran Canaria,
Quanto fin qui descritto, è avvenuto tra l'autunno del 2004 e la primavera del 2014. E tralascio il resto per non tediare il lettore.
Si suole dire che tra i miei contemporanei Fidel Castro sia stato colui che abbia scampato a più attentati. In tutta sincerità, non so se questo record non dovrebbe essere assegnato a Melchiorre Gerbino.



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